lunedì 24 maggio 2010

Shippey: La filologica provvidenza di Tolkien

Di Tom Shippey (trad. di Saverio Simonelli).

Nel Signore degli Anelli Tolkien non usa mai la parola Provvidenza, mentre usa molte volte il termine “fato” e altrettante volte “caso”. Così, all’apparenza Tolkien sembrerebbe più consapevole del fato o del caso che della provvidenza. Ma le cose non stanno certo così. Inizierò il mio ragionamento segnalando alcuni passi in cui Tolkien formula dei dubbi, o fa sì che ne esprimano i suoi personaggi, proprio sull’esistenza del caso. Gandalf, per citarne uno, parlando con Frodo e Gimli dopo la conclusione della guerra dell’Anello, dice che è possibile definire triste la morte di Dain, re dei Nani: “Eppure le cose sarebbero potute andare in maniera assai diversa e di gran lunga peggiore. Ma questo non è avvenuto perché una sera a Brea sul far della primavera ho incontrato Thorin Scudodiquercia: un incontro casuale, come si dice nella Terra di Mezzo.”

Ciò implica che al di fuori della Terra di mezzo, cioè nelle Terre Imperiture, l’incontro non sarebbe stato considerato affatto come qualcosa di casuale. E quest’idea trapela diverse altre volte. Tom Bombadil, ad esempio, così si esprime a proposito del salvataggio degli hobbit dalle grinfie dell’Uomo-Salice “fu il caso a condurmi lì, se caso è il suo nome”. Ancora una volta l’implicazione è che il “caso” sia meramente una parola, e una parola fuorviante.

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